Intervista al tavolo TransFemministaQueer dell’Ateneo Libertario di Milano

a cura di Il Mago di Oz

Un’intervista al tavolo queer transfemmista dell’Ateneo Libertario di Milano per conoscere l’approccio anarchico alle battaglie contro l’eterocispatriarcato, alcuni contesti istituzionali di oppressione e le dinamiche del movimento.

Domanda. Quando e con quali urgenze è nato il tavolo?

Risposta. Il tavolo queer transfemminista all’interno dell’Ateneo Libertario di Milano nasce circa un anno fa per rispondere all’esigenza di portare la questione sessuale e di genere negli spazi anarchici e, al contempo, per promuovere l’anarchismo nella galassia queer e transfemminista.

Alcunx militanti dell’Ateneo Libertario erano già inseritx da tempo in percorsi di lotta all’etero-cis-patriarcato; pertanto, durante una delle nostre assemblee settimanali, ci siamo interrogatx sulla possibilità di creare un tavolo tematico che si dedicasse nello specifico a questo tipo di battaglie, affrontandole in un’ottica libertaria e non neoliberale.

Inoltre, la nascita di piazze queer antagoniste a Milano nel corso degli ultimi 2-3 anni ci ha sicuramente stimolatx in questa direzione.

D. In cosa si differenzia un collettivo transfemminista queer anarchico rispetto a dei movimenti che cercano interlocuzione istituzionale? In quanto anarchic* vedete con favore eventuali leggi dello Stato a tutela della comunità lgbtqi?

R. Un aspetto che senza dubbio ci distingue dall’associazionismo gay mainstream è la scelta di organizzarci dal basso in maniera orizzontale, autogestionaria e ostile ad ogni tentativo di rainbow-washing. Partiamo dall’assunto che se noi siamo gli/le oppressx, nostra deve essere la lotta. Non vogliamo essere finanziati da enti privati o da brand arcobaleno che commercializzano le nostre rivendicazioni o peggio le nostre esistenze.

Un anarchismo transfemminista queer è una prospettiva politica che vede lo Stato più come fonte di oppressione che come garante di diritti. Ci ritroviamo nella definizione di Stato come sistema di dominio dell’uomo sul vivente e ci rendiamo conto che fino ad ora le istituzioni hanno rappresentato più un problema che una soluzione alle nostre istanze. Pensiamo a Chiesa, esercito, polizia, carceri, istituzioni sanitarie o alla Costituzione stessa, che definisce la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio eterosessuale.

Persino il Senato, che si presenta come uno dei più autorevoli strumenti di rappresentanza della cittadinanza, è stato recentemente teatro di ovazioni e festeggiamenti per la morte del DDL Zan, una iniziativa legislativa che, per quanto non riconoscesse nemmeno il minimo sindacale alle persone lgbtqi, avrebbe potuto essere un punto di partenza quantomeno per un cambiamento culturale. Se la parte del disegno di legge volta a contrastare la violenza omolesbobitransfobica mediante la giustizia penale non è da noi condivisa, consideriamo l’introduzione di appositi momenti di formazione all’interno delle scuole come uno strumento sicuramente valido.

D. Come rispondi a chi afferma che i diritti lgbtqi servono solo ad aumentare l’odio e la categorizzazione verso le persone stesse?

R. Negli ultimi anni il dibattito sulle questioni Lgbtqia+ è stato percepito da una fetta importante di popolazione come una sfida a quelli che sono i pilastri “morali” della società. Spesso ci viene detto in maniera provocatoria che “se esiste il gay pride allora deve esistere anche l’etero pride”. Quello che le persone non capiscono è che senza visibilità non ci può essere accesso all’arena pubblica e politica, per cui qualsiasi istanza non può essere portata avanti. Il Pride, lungi dall’essere un momento di folclore o di ghettizzazione, è una situazione di lotta e di riconoscimento politico.

Accade anche che le nostre rivendicazioni vengano sminuite e ridicolizzate da chi pensa che le priorità siano altre, come affrontare le questioni legate alla dimensione del lavoro. Noi rispondiamo che i diritti civili sono diritti sociali; anzi, rifiutiamo proprio questa dicotomia. Le persone lgbtqi sono cittadinx esattamente come gli altri, vivono le stesse condizioni sociali degli altri, ma in più subiscono i disagi derivanti dallo stigma. Perciò, è evidente che il nostro interesse non può essere unidirezionale e che chi muove questo tipo di accuse è in malafede.

D. Come tavolo anarcofemminista avete affrontato il tema del diritto a un aborto libero e accessibile, dell’obiezione di coscienza e anche del sostegno di una maternità femminista libera e autodeterminata?

Alcunx compagnx del nostro tavolo partecipano attivamente al movimento transfemminista Non Una Di Meno e temi come il diritto a un aborto libero, sicuro e gratuito e l’autodeterminazione delle donne sono ancora oggi ritenute centrali dal movimento anarchico. Nonostante la strada fatta dalle lotte femministe e transfemministe a livello globale e territoriale, ci troviamo ancora a fare i conti con un sistema patriarcale e capitalista che se, da un lato, dichiara di essere diventato “amico delle donne” (proprio mentre scriviamo è arrivata la notizia che in Italia avremo la prima donna premier di estrema destra), dall’altro continua a minacciare la nostra libertà di scelta e le nostre vite attraverso espulsioni e internamenti delle donne migranti, limitazioni all’accesso all’IVG, impoverimento, femminicidi, distruzione e sfruttamento ambientale, smantellamento dei consultori e della sanità pubblica, criminalizzazione delle sex workers e delle donnx che non rientrano nei canoni della brava moglie, madre e angelo del focolare.

I corpi delle donne, delle persone dotate di utero, delle persone Lgbtqia+ e la loro libertà di scelta sono ancora terreno di battaglia, costantemente messi in pericolo dalle spinte neo-conservatrici e dai falsi interessamenti della sinistra neoliberale. Basti pensare che in tutto il mondo, ancora oggi, non è possibile abortire in sicurezza e questo significa la morte di 50 mila persone l’anno. Attualmente, in Italia, anche se esiste la L.194 del 1978 che regola il diritto all’Interruzione Volontaria di Gravidanza, ci sono ben 31 strutture (24 ospedali e 7 consultori) con il 100% di obiettori di coscienza. A livello nazionale l’obiezione di coscienza supera il 70% tra medici, anestesisti e personale infermieristico e in alcune regioni si sfiora addirittura il 90% di obiettori. Questo significa non solo impossibilità di scegliere una maternità libera ma anche l’aumento del rischio per la salute di chi sceglie di abortire.

Come femministx e anarchichx continuiamo a dire che non si può negare l’aborto alle donne, ma solo renderlo meno sicuro e pericoloso. Le donne, storicamente, hanno sempre abortito, anche quando era vietato e dovevano ricorrere a metodi casalinghi o altamente rischiosi per la propria salute. Negare o impedire oggi un libero accesso al diritto di aborto significa mettere la vita delle donnx a rischio e non, come viene sempre detto dalla propaganda catto-conservatrice, “salvare una vita”. Anche quando la donna riesce a superare il percorso ad ostacoli che Stato, destre ultra-conservatrici, Chiesa e associazioni pro-vita impongono al suo percorso individuale per una maternità libera, deve subire lo stigma culturale, la criminalizzazione, la colpevolizzazione e le violenze psicologiche e ostetriche per l’accesso all’IVG. Questo è un sistema che ancora punisce le donne che osano andare contro una supposta morale comune.

Oggi, ad opera di alcune realtà dell’associazionismo cattolico in convenzione con ospedali pubblici e Asl, in una cinquantina di comuni italiani vengono sepolti nei cosiddetti “cimiteri dei feti” i materiali organici del concepimento (embrioni sotto la 27esima settimana di gestazione), senza il consenso da parte della donna (e a spese dell’Asl ovviamente, quindi con soldi pubblici). Recentemente, il senatore di Fratelli d’Italia Luca de Carlo ha proposto di modificare la L.194 per rendere legale e diffuso sul piano nazionale questa pratica barbara di violenza alla donna e alla sua privacy. Quello che temiamo è che, in particolare con i risultati delle ultime elezioni nazionali, ci sarà un rilancio della triade “Dio, patria e famiglia” declinata nelle sue forme più sessiste, razziste, omolesbobitransfobiche e abiliste, relegando le donne sempre più nel ruolo di riproduttrici della nazione bianca, patriarcale ed eterosessuale. Per questo continueremo a parlarne e ad auto-organizzarci, crediamo che i diritti o sono per tuttx o si chiamano privilegi.

D. Qual è l’impatto culturale delle istituzioni religiose in Italia, rispetto ad altri paesi, sui temi lgbtqi?

R. In “Boris, il film”, uno dei personaggi fa girare una raccolta firme per trasferire il Vaticano all’estero, «affinché anche gli altri paesi possano beneficiare di tutti quei vantaggi che abbiamo avuto noi per secoli». È una trovata divertente, ma allo stesso tempo esprime una frustrazione che avvertiamo sulla nostra pelle.

Ci chiedi del confronto con altri paesi. Non abbiamo il tempo per una comparazione minuziosa, ma la comunità Lgbtqia+ italiana non è la più sfortunata. A pochi passi da noi c’è l’Africa, un continente in cui cristianesimo e islam congiurano a diversi livelli con le istituzioni per cancellare – ricorrendo al carcere e perfino alla pena di morte – identità e sessualità considerate contro natura e blasfeme. Ciò basti a dimostrare come sia miope concentrarsi solo sui paesi viciniori: la queerfobia di matrice religiosa ha tentacoli che si estendono a livello globale ed è nostro dovere essere solidali con le sofferenze e le lotte delle sorelle e dei fratelli di ogni latitudine.

Ma ritorniamo all’Europa occidentale. Innanzitutto è evidente che, più si procede verso Sud, più l’influenza delle istituzioni religiose diventa opprimente. Qui non ci appendono alla forca, tuttavia ci sono tanti modi per spegnerci.

In Italia, negli ultimi 60 anni, la secolarizzazione ha fatto grandi passi avanti, eppure un sostrato di cattolicesimo è onnipresente. Si tratta di una religiosità opportunistica, utile a ricoprire di una patina di sacralità (“maschio e femmina li creò”) quelli che in realtà sono i dispositivi di potere patriarcali, eteronormativi e misogini.

Per svelare il vile camuffamento, basta guardare alle destre nostrane: esponenti politici divorziati o conviventi, con prole nata al di fuori del matrimonio sacramentale, si dichiarano ossequiosamente cristiani, si ergono a difesa della famiglia papà-mamma-figlio-figlia e agitano lo spettro del gender. È il solito vecchio espediente: costruirsi una maschera di rispettabilità, inventare un nemico, un agente del caos dalle fattezze mostruose, e offrirsi come la soluzione. L’importante è distrarre l’attenzione delle masse dai problemi che il prossimo governo non vuole o non sa risolvere.

E la chiesa cattolica come reagisce a questa ipocrisia? La cavalca volentieri, poiché è consapevole di aver perso la presa morale sulla società. Il clero percepisce che rispetto ad alcuni temi, per esempio la discriminazione delle persone queer, ci sono ancora orecchie pronte ad ascoltarlo e sulle quali può esercitare pressione – anche in forza di una subalternità economica che qui non possiamo approfondire -. Proprio per questo si aggrappa disperatamente alla crociata contro i diritti civili! Chissà che non sia un primo passo per riguadagnare terreno… La prova provata di tale disperazione risale all’anno scorso, quando, per la prima volta nella storia repubblicana, la Santa Sede è entrata a gamba tesa nel dibattito politico italiano, consegnando al governo una lettera ufficiale contro l’approvazione del DDL Zan. Ecco il vero volto del “rivoluzionario” papa Francesco, di colui che ha domandato: «Chi sono io per giudicare un gay?» (N.B: si riferiva allo scandalo che aveva travolto un prelato e il suo amante). Per farsene un’idea basterebbe rileggere le sue esternazioni sul gender, sui pericoli che correrebbe la famiglia naturale, sulla stigmatizzazione del matrimonio tra persone dello stesso sesso – quando era cardinale a Buenos Aires lo definì una mossa del diavolo -.

In conclusione, ci piace citare il titolo di un acceso ciclo di dibattiti che si tenne nel 2009 a Westminster, Londra: “La chiesa cattolica è una forza positiva nel mondo?”. La nostra risposta è no. L’istituzione ecclesiastica e i suoi palafrenieri laici sono un nemico, un’antica costola dell’eterocispatriarcato che vorrebbe la patologizzazione (pensiamo alle devastanti e antiscientifiche teorie riparative), la negazione, la condanna alla solitudine e la morte sociale delle soggettività Lgbtqia+. Noi non dimentichiamo il sangue di cui si sono macchiati, come mandanti e come complici, e approfitteremo di ogni occasione per ricordarglielo.

A questa violenza rispondiamo che non siamo dispostx a piegarci davanti ad alcuna religione, che sputiamo ridendo sul loro concetto di natura e di ordine morale, che “siamo legione” e che non ci possono fermare.

Noi non abbiamo paura. Sono loro a dover tremare davanti alla nostra oltraggiosa libertà.

D. Ci sono ancora tensioni all’interno della comunità lgbtqi tra le diverse identità? Queste divisioni sono di ostacolo alla lotta per l’uguaglianza?

R. Più che di tensioni fra diverse identità ha senso parlare di divergenze rispetto al tipo di approccio, che può essere identitario o meno.

La politica queer nasce proprio per superare quelle rivendicazioni di carattere identitario che per la loro stessa natura sono destinate a generare nuova esclusione. La sigla LGBT è frutto di anni di duro lavoro nei quali persone Gay, Lesbiche, Bisessuali e Trans si sono esposte per ottenere visibilità politica e dignità. Tuttavia, è stato fin da subito evidente che questa sigla non potesse comprendere tutti quei modi di vivere la sessualità e il genere che si collocano in una posizione altra rispetto alla norma etero-cis-patriarcale (pensiamo alle persone intersex o a quelle asessuali).

Detto in altre parole, lottare perché il potere riconosca l’inclusione di una nuova identità significa rischiare di condannarne un’altra all’invisibilità.

La politica queer intende superare questa logica identitaria che cerca la liberazione sessuale attraverso l’essenzialismo. Queer è superamento di identità, categorie ed etichette comode al potere per assorbire e normalizzare ciò che prima era devianza.

Il termine queer potrebbe quindi essere usato come concetto-ombrello per includere tutto ciò che è difforme rispetto alla norma sessuale e di genere. Per questo motivo moltx militanti cercano l’eguaglianza preferendo la queerness all’affermazione di una nuova identità specifica fra quelle che compaiono nella sigla lgbtqia+.

Anche l’azione politica si dispiega in modi differenti: soggettività e associazioni legate all’identitarismo mirano quasi esclusivamente alla conquista di diritti (matrimonio egualitario, leggi anti-discriminazione, omogenitorialità); l’attivismo queer, invece, pur accogliendo positivamente le istanze “civili”, propone molto di più, cioè un radicale sovvertimento dell’esistente, attraverso pratiche di lotta intersezionali, collettive, orizzontali, autogestite, anti-sistema e libertarie.

Benché i due approcci procedano su strade separate e, a volte, perfino conflittuali, non c’è danno reciproco. Si tratta di un rapporto dialettico che può solo fare bene all’evoluzione del pensiero e delle battaglie.

Intervista apparsa sul sito: https://www.magozine.it/intervista-al-tavolo-queer-transfemminista-dellateneo-libertario/

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